E’ nato e ora si torna a casa: è adesso che si comincia
Qualche riflessione forse un poco azzardata
in preparazione del convegno del 18 Ottobre 2012
Bergamo, Centro Culturale san Bartolomeo
Il bambino è nato ed è tornato a casa. Tutta l’assistenza medica – a volte eccessiva rispetto alla fisiologicità dell’evento – e affettiva, a questo punto, molto spesso, si esaurisce. Ciò per cui si doveva stare vicini a mamma e bambino si è compiuto. La gravidanza è finita, il parto è avvenuto. Stanno tutti bene. Non c’è più bisogno di nulla.
Da questo equivoco, rischia di nascere una situazione di solitudine. La solitudine della mamma col bambino. Un bambino che ora ha una veste prima sconosciuta, che comunica con un linguaggio prima sconosciuto, il pianto, che esprime un’irrequietezza nuova rispetto ai limitati movimenti che poteva compiere quando era in utero. Un bambino che può mangiare e non mangiare, dormire e non dormire. Una vita autonoma. Una situazione nuova che richiede tempi di apprendimento.
In realtà con il travaglio e il parto non si è esaurito il compito della madre: solo, questo assume modalità nuove come nuove probabilmente sono le modalità di supporto che lei necessità. Supporto per cambiare – gradualmente – marcia, in un momento nel quale invece, molto spesso, la madre sperimenta il senso dell’isolamento anche sociale dinnanzi a questo compito e dinnanzi alla prostrazione fisica e psicologica nella quale può trovarsi, dopo l’esaurimento dell’eccitazione dell’attesa e della nascita. Supporto per sostenere in modo nuovo il bambino nella sua natura di portatore di bisogni nuovi. Non cammina, non parla, comunica in modo complesso ma c’è. E la sua esigenza ora non è più solo quella dell’essere ma si è modificata ed è evoluta in esigenza del benessere.
Si è formato un distacco e anche questo deve essere gestito: per le novità concrete che questo porta con sé ma anche per l’effetto che produce sull’equilibrio di mamma, bambino e di ambiente immediatamente circostante. Il bambino è fuori dal grembo. Si tratta di un cambiamento improvviso. Il patto tra lui e la mamma che si era consolidato soprattutto nelle ultime settimane di gestazione è saltato. Il bambino è autonomo. Piange quando vuole lui. Un’autonomia che deve crescere. Un distacco che prosegue e che rischia di diventare una prova invece che un’esperienza – un’opportunità – che non si esprime solo col taglio dell’ombelico ma con la consegna in senso più ampio del bambino al mondo.
Il bambino e la mamma, dunque non possono restare soli. Anche nel loro contesto sociale ed economico. L’incidenza del contesto comunitario è determinante e, con esso, i servizi e le strutture che possono essere messi a disposizione dei bisogni del nuovo nucleo, a partire dal primo gesto – un aiuto, una presenza – per assicurare la continuità relazionale anche e in modo particolare dopo l’abbondanza di cure, di attenzioni e di aspettative che caratterizzano le fasi precedenti e immediatamente successive al parto e che sono, come si diceva, molto spesso seguite dal vuoto.
L’ospedale medicalizza e probabilmente questo è necessario ma poi c’è l’inserimento nella quotidianità e qui si deve aprire la riflessione su cosa e su come possano e debbano fare le strutture e gli enti preposti a sostegno di mamma, bambino, papà, insomma della micro-comunità che si è formata. Riflessione che non può essere disgiunta da considerazioni di tipo economico e etico combinate tra loro. Ci si deve porre la domanda su quanto la comunità è effettivamente interessata a fornire servizi e supporti non più così facilmente monetizzabili come quelli erogati nel periodo della gravidanza. Superata la fase degli esami clinici, delle ecografie, delle translucenze nucali, si entra in una fase in cui le prestazioni non sono più così facilmente monetizzabili.
In gioco, in realtà, c’è un interesse capitale per la Società, quello del ricambio generazionale. Nasce un bambino e nascono due genitori. Nasce però anche una futura generazione, il peso della cui realizzazione non può essere lasciato solo ai più diretti protagonisti. Genitori e bambino possono infatti svolgere con efficacia questo fondamentale compito antropologico se c’è alleanza, ascolto, sostegno nella comunità e, con essa, supporto e servizi.
Viviamo in una epoca e in un contesto nel quale il ricambio generazionale appare per lo meno rallentato con i danni facilmente prevedibili per i processi evolutivi della Società in tutti i suoi ambiti: culturale, economico, ambientale, di sviluppo, di risorse. Questo impone un’attenzione particolare e una corretta definizione delle categorie di importanza e di urgenza nonché delle relazioni tra loro a livello sociale ma soprattutto a livello di micro-comunità, quella appunto rappresentata dal nuovo nucleo – genitori, bambino – che si sta formando. Attenzione che deve esprimersi prima del parto per definire i progetti necessari alla gestione del dopo.
Parliamo di processi che tengano presente quanto le considerazioni proposte più sopra conducano a sottolineare come sia necessario il supporto della Società alla genitorialità. Parliamo di una genitorialità, di una maternità reale, viva, vera non di quella immersa nella retorica che definisce quanto siano tutte belle le mamme del mondo e che tende ad ammantarle di quell’immagine divenuta classica nell’iconografia dell’immaginario collettivo che le vuole esclusivamente donne felici per il solo fatto di essere madri. In realtà i nuovi genitori e, in particolare, la madre, sono tutt’altro che esclusiva poesia. La mamma è limitata nei movimenti, ha scarsa autonomia, dipende dall’aiuto di altri e il suo benessere diventa essenziale. Di questo benessere dunque, oltre che di quello del bambino, ci si deve occupare posto tra l’altro come il secondo sia così dipendente dal primo.
Infine, nuova nascita, maternità, genitorialità, ritorno a casa, in ultima analisi, devono essere considerati nella loro dimensione più ampia. Non solo salute sia pure nella definizione più completa di stato di completo benessere fisico, psichico e sociale. Non solo problemi che vi sorgono intorno. Non solo aspetti economici, sociali, antropologici, etnologici. La dimensione corretta è quella dell’esperienza e del linguaggio nuovi di ogni singolo protagonista del nucleo più stretto e di quelli via, via più ampi o più distanti che vi orbitano intorno, fino a quello della Società nel suo complesso.
Politerapica – Terapie della Salute